domenica 26 agosto 2012

Giorno 15 e 16.

Arriviamo al capitolo conclusivo, postato qui una volta tornata a casa, impossibilitata a farlo prima a causa della persistente mancanza di connessione.
L'ultimo giorno in India è giunto al termine. Strano da dire adesso, dopo queste due settimane, siamo arrivati al punto che da domani mattina al risveglio ogni cosa tornerà alla normalità, alla quotidianità che conosciamo, alla vita e alla cultura che ci appartiene. Quanto ci vuole ad abituarsi a qualcosa, ad un luogo, ad un modo di vivere? Quanto ci vuole per creare quelle tanto amate abitudini dalle quali facciamo fatica a staccarci? Non so se quindici giorni sono bastati, ma d'altra parte sto cominciando a pensare agli impegni che mi attendono. Questo dovrebbe aiutarmi, o almeno l'ha fatto in passato.
L'ultima giornata in India è stata all'insegna della spensieratezza, così potrei dire. Abbiamo trascorso qualche ora in un luogo chiamato Kingdom of Dreams,il Regno dei Sogni, le cui fattezze richiamano effettivamente il nome. Si tratta di una sorta di parco a tema, ma non è propriamente esatto, poiché è piuttosto un grande edificio, comprendente un grande teatro e uno spazio interno con una volta a cielo dove si trovano ristoranti e qualche negozietto, tutto rigorosamente indiano. Un luogo di tradizione, nel cibo, nell'architettura, nei prodotti in vendita, negli spettacoli. Abbiamo assistito ad uno di questi, chiamato Zangoora, un musical tutto in lingua hindi, ma perfettamente comprensibile. La storia di questo giovane, il principe gitano, strappato dal suo diritto alla discendenza di maraja e finito a vivere tra i gitani, che alla fine riesce a riprendersi il trono, nonché la bella dama. E' stato divertente vedere come le storie siano sempre simili, e come la tradizione indiana in questo luogo si fonda con la scenografia tipica americana. Nel senso del fare le cose in grande stile, usando molte volte i fili per mettere in sospensione gli attori e farli volare per il teatro. 
Poi un ultimo tempio, il Chattapur Mandir, che fa parte di un complesso molto grande, comprendente qualcosa come quattro o cinque templi. Ne abbiamo visitato solo uno, perché in fondo questo luogo era speciale per qualcosa di cui mi sono sentita soddisfatta: la sensazione di poter salutare un panorama meraviglioso di cupole e giardini mistici, al calar della sera mentre le luci esterne si accendevano. Ed ecco come, tra le palme, statue d'elefanti, il blu del cielo che si intensifica accanto agli edifici illuminati, ho sentito di salutare la parte di quest'India che porterò con me sempre, quella della continua sorpresa e, tra le difficoltà, l'assoluta meraviglia di spettacoli del genere. 
Oggi abbiamo lasciato questo paese di cui ho avuto occasione di conoscere una parte, silenziosamente, di mattina presto. Un volo intercontinentale strapieno ci ha portati via, con molte ore di viaggio abbastanza stancanti. A casa finalmente trovo il cibo che amo, ma molte altre cose di cui ho sentito la mancanza. E penso a cosa non mi mancherà: quegli odori, sorprendentemente difficili da sopportare, sopra ogni cosa. Penso all'idea di igiene e pulizia a cui sono abituata, a come ogni cosa più banale che diamo per scontato spesso ci caratterizza più di ciò che pensiamo. E lontano da qui qualcun'altro vive in una realtà del tutto differente, a volte nella bambagia, altre nella miseria. E penso a come siamo portati noi a pensare a volte che tutto ci sia dovuto, senza forse apprezzarne a sufficienza la fortuna, come si pensa in culture come quella induista. Possiamo chiamarla fortuna, fato, essere il frutto di qualcosa che ci ha preceduti, che conduce verso qualcos'altro di molto più grande, la perfezione, dalle mille forme e dalle mille religioni. Io mi ritrovo ancor più vicina ad un principio, quello di approfittare di ciò che la natura o chi per essa mi abbia donato, per potermi sentire fiera. Di me.
Questo è stato un viaggio che porterò con me, che resterà forte anche nel legame con colui che l'ha condiviso con me. 
E domattina mi sentirò prima triste, poi mi rimboccherò le maniche e mi darò da fare per ciò che devo, proseguendo nella mia vita. Arriveranno altri viaggi ed altri mondi da scoprire, perché questa è la parte più bella del viaggio, ciò di cui sentirò la mancanza più forte: lasciarsi coinvolgere per conoscere ciò che ci è ignoto, e per questo non basterà mai tutto il tempo del mondo.

sabato 25 agosto 2012

Giorno 14.

Ancora una volta impossibilitata dalla connessione internet inesistente, questo giorno arriva la mattina dopo.
Di nuovo a Delhi, oggi l'ultimo giorno in questo paese. Ieri ho cominciato ad intuire le emozioni contrastanti che mi darà mettermi in viaggio per tornare a casa, dopo tutto questo. Ma domani capirò ancora meglio cosa significa.
Intanto ripensavo a degli aneddoti che mi sono sfuggiti, parlando soprattutto di animali. Perché qui, nella zona di Gurgaon vicino Delhi non se ne vedono, ma sappiamo ormai quali sono i classici. Vacche madri, cani stanchi, capre vispe, scimmie soffici  e piccoli scoiattoli saltellanti su tutti. Ma il gatto? Ecco, ad esempio da queste parti non sembra ben visto e se ne incontrano davvero pochissimi in giro. Qualche giorno fa eravamo sul tuc-tuc, la sera era già calata, e stavamo percorrendo una piccola strada di Varanasi. All'improvviso un gatto rosso, di cui intravedo solo i lineamenti, sfreccia attraversando da un lato all'altro la strada. Il ragazzo indiano alla guida inchioda e si ferma, guardandosi intorno e aspettando che le due biciclette subito dietro di noi attraversassero per prime quel limite immaginario creato dal gatto. Sanjay, che era lì con noi, sorridendo ci spiega che porta sfortuna passare dopo che ha attraversato un gatto. Divertente, dico io, noi abbiamo la stessa tradizione, ma solo con quelli neri. Incredibile come, seppur così lontani, abbiamo un dettaglio del genere quasi in comune.
E poi il topo, anch'esso animale non spesso visibile, ma molto diffuso, un po' come da noi. Ce n'erano parecchi che correvano sulle rotaie del treno alla stazione di Agra, come se ne trova qualcuno in alcuni edifici. Eravamo in un negozio di ninnoli indiani, che vendeva strumenti musicali bellissimi, statuette, persino sedie, gioielli e così via, mentre il venditore si intratteneva in una lunga conversazione con noi, in parte per farci acquistare cose, ma soprattutto perché ne aveva voglia, e si vedeva. Sorrideva spesso, parlava della sua cultura senza quell'aria sognante che spesso abbiamo visto. Così parliamo della religione induista, nella quale crede e che prega quando gli serve qualcosa, come spesso accade. E di Ganesh, il dio con la faccia d'elefante, con una grande pancia, simbolo di prosperità. Il dio che rimuove gli ostacoli, che porta fortuna eccetera. Lui, nelle rappresentazioni, si vede spesso a cavallo di un topo, che è il suo veicolo, dicono. Il negoziante ride, ci dice che nel negozio ce n'è uno, forse due, ma che quindi non può ucciderli. In India non si usano le trappole per ammazzarli, perché essi sono i veicoli di Ganesh, dice con perplessità. Buffo osservare come, in alcune piccole cose, la vita qui sia davvero dipendente dalla religione.
E torniamo alla vacca. Sempre con questo negoziante parliamo delle madri, del perché sono sacre, ossia proprio perché sono madri, ma ci sono anche altre ragioni. Il fatto che alla fine siano portatrici di buona sorte, sostanzialmente. Poi ci fa una rivelazione. Con fare stupito e sottolineando l'importanza di questa notizia, dice che un tempo le vacche producevano molto più latte. Pensate un po', fino a quindici litri al giorno, magari pure venti. Una sola, che oggi invece ne fa tre o quattro. Io dico che dovevano essere proprio grandi quelle vacche, per avere tutto quel latte. No, dice convintissimo, affatto, sono come quelle di adesso. Io qui sono perplessa, ma mi piace vedere anche come la fede in certi dettagli sia forte, anche se non completamente ragionevole.
Ma torniamo dunque a parlare di ieri, giornata che ha avuto il suo inizio molto presto, verso le cinque di mattina, per andare a fare un giro in barca sul Gange all'alba. Tutti non facevano altro che dirci che si trattava dell'esperienza più bella che un turista possa fare a Varanasi, dicendo che non potevamo perdercela, così, davanti a questo, abbiamo detto perché no. Ed effettivamente la vista di quello che abbiamo trovato una volta arrivati al Ghat è stata meravigliosa, era valsa la pena di svegliarsi così presto. Con la piccola barca a remi abbiamo percorso un tratto del fiume verso sud, che avevamo visto anche l'altro giorno, ma molto vicino alla riva dei Ghat, che si susseguivano uno dopo l'altro con i bagnanti in preghiera. L'uomo sulla barca ci dice che questa è l'usanza, la mattina presto venire a farsi il bagno per poi dirigersi nei templi, per pregare ed essere in un certo senso benedetti. La luce era incredibile, come illuminava gli edifici alle mie spalle, mentre di fronte la sfera arancione del sole era salita poco poco, sopra la riva coperta di vegetazione. Il cielo, scuro e nuvoloso, permetteva a quella luce di arrivare solo dritta, orizzontale, mettendo in risalto ogni colore, specialmente sull'acqua. Quell'acqua appariva ancora più magica, con i mille riflessi dal giallo al blu, passando per il rosa, così molto mistico è stato rilasciare un fiore con una candela in quell'acqua, pronunciando il mio nome. Si tratta del rito di buon auspicio e benedizione, per sé e per la propria famiglia, per tutti i cari. Raggiungiamo tornando il Ghat da cui eravamo partiti facendoci sospingere solo dalla corrente e, quando lasciamo questo luogo, mi volto indietro una volta, per cercare di non dimenticare quei colori.
Di nuovo in viaggio, questa volta verso Delhi, ci dirigiamo all'aeroporto di Varanasi, salutando la città lungo la strada. Non posso dimenticare un uomo, a passeggio tra la gente, completamente nudo, con una sciarpa al collo, che camminava tranquillo, forse un po' confuso, mentre la gente intorno a lui non ci faceva più di tanto caso. Mi viene da sorridere e penso che cose così non si vedono dappertutto, intendo vissute con tale serenità. All'aeroporto incappiamo in qualche inconveniente, dato da stranezze del luogo, come l'impossibilità di portare liquidi di nessun genere a bordo. Insomma, nemmeno sotto i cento millilitri in busta di plastica, come si fa in tutto il mondo. Comunque senza nemmeno accorgercene, eravamo poi già tornati a Delhi, così abbiamo raggiunto l'hotel, che questa volta è nei pressi dell'aeroporto per facilitarci nel ritorno. Tornando a Delhi, ho ricordato l'agrodolce sensazione provata nel lasciarla per andare a Jaipur, con l'idea che ciò che ci aveva regalato Delhi forse non era la realtà diffusa davvero in questo paese. C'era una certa incredulità, data dalla novità, dalla mancanza di esperienza con questo mondo. Adesso penso che tornare qui è mettersi anche in pace con questo, perché, se essa è la capitale, è anche perché è il simbolo più rappresentativo del paese dopotutto. Ma questa volta ci troviamo a conoscere il lato più occidentale dell'India, quello di Gurgaon, piccola città con centri commerciali e palazzi che sembrano grattacieli. Così, curiosi di vedere come fosse l'incontro tra ciò a cui siamo abituati e qui, ci siamo diretti all'Ambience Mall, un grandissimo centro commerciale qui vicino, per dare un'occhiata ai negozi e mangiare qualcosa. Per raggiungerlo però percorriamo un passaggio sotterraneo senza luci, con motociclette che ci sfrecciano ad un passo, finché non usciamo e continuiamo all'esterno. Dobbiamo camminare sul ciglio dell'autostrada, come ho visto fare tante volte agli indiani, chiedendomi perché mai facessero qualcosa del genere. Ora che lo faccio anche io, capisco che a volte è l'unico modo per raggiungere la destinazione, perché non esiste un percorso per i pedoni. Così, dopo circa tre chilometri, entriamo in questo luogo del tutto familiare, pieno di negozi che già conosciamo, di marche vendute in tutto il mondo. Con la particolarità che probabilmente la merce viene prodotta proprio qui. Comunque ci sono anche negozi indiani, anche di alta moda, e sembrano davvero belli. Un piano è solo di ristoranti, così c'è Mc Donald's, che persino qui ha trovato il modo di attecchire, nonostante non mangino né manzo né maiale e la maggior parte della popolazione è vegetariana. Sì, perché si sono inventati, solo per questo paese, il Mc Egg, che sembra molto consumato dai locali. Poi entriamo da Pizza Hut, perché no, e farci una pizza. Solo che io voglio la Pepperoni Pizza, ossia quella col salame piccante, ci dovrà pur essere, in tutti i paesi è il classico della catena, la prima che si vede sul menu. Ma qui non è così, però la cerco, mi dico che ci dovrà pur essere. Infine, ultima tra le ultime, eccola là citata, con indifferenza.
Questa è l'India che si dirige verso di noi, che perde e ritrova una sua identità nell'adattarsi a ciò che non le appartiene. Lo spirito di questo paese è in piena evoluzione, in piena crescita, e chissà come sarà visitare questi luoghi tra qualche decina di anni. Forse, superati i nodi più difficili, uno su tutti la pulizia delle strade, con l'installazione di impianti fognari per la città, nonché il miglioramento del decoro urbano in generale, per quanto riguarda infrastrutture ed edifici, questo paese non sembrerà poi così lontano e diverso da ciò che conosciamo. Ma gli animali tra gli uomini sono la caratteristica più unica ed interessante, nonostante i problemi che anch'essa possa creare. Spero che in India si continuino sempre ad evitare le vacche in mezzo alla strada.

giovedì 23 agosto 2012

Giorno 13.

Ultimo intero giorno a Varanasi, quello che si sta per concludere. Domani mattina partiremo nuovamente alla volta di Delhi, la prima ed ultima località prima di tornare a casa. Ma ancora non abbiamo finito con questa città. Ma iniziamo da questa mattina.
Il nostro amico ci aspettava puntuale, così ci siamo incontrati ed abbiamo pianificato insieme la giornata. Questa è stata piena, e dico davvero piena, di templi: tre la mattina e due nel pomeriggio. 
Ci siamo diretti verso la parte sud della città, visitando un primo tempio induista, meno interessante dei due a seguire. Infatti il secondo, Durga Temple, è conosciuto anche come il Tempio delle scimmie, in cui la mia speranza di trovare molte di loro è stata soddisfatta. Si accede per un metal detector, come al solito, e bisogna lasciare le borse, come spesso accade. Così si percorre un vialetto tra gli alberi in cui decine di scimmie dal pelo soffice e prese dalle più diverse attività circondano i passanti incuriositi: alcune si spulciano a vicenda, altre osservando le persone allattano i piccoli, alcune giocano tra di loro come in una lotta senza sconfitti, molte si arrampicano sugli alberi o sulle reti. Infatti questo sentiero è circondato da una rete sgangherata, che spesso si apre completamente o si ripiega su se stessa, mentre sia all'interno che all'esterno di essa vi è una certa quantità di spazzatura. Ho pensato che peccato, potrebbe essere davvero molto più suggestivo questo luogo se non fosse per la mancanza di cura di questi spazi. Raggiungiamo il tempio e vi passeggiamo dentro ed intorno lasciando fuori le scarpe. Penso di aver tolto e rimesso le scarpe oggi qualcosa come dieci volte.
Il terzo tempio, lo Shree Vishwanath Mandir, risulta interessante, soprattutto nel tragitto per raggiungerlo. Passiamo con il tuc-tuc all'interno della città universitaria di Varanasi, dalla quale non mi aspettavo una tale vastità: si tratta dell'università induista. Comparivano a destra e a sinistra una dopo l'altra tutte le facoltà, da legge, a chimica, a biologia molecolare, ad agraria, in grandi edifici in stile coloniale, tutti un po' simili tra loro. Tra di essi, lungo le strade curve, molto verde ed alberi si susseguivano, creando vaste aree a parco per gli studenti, mentre ogni tanto era possibile vedere una casa di un professore. A quanto pare abitano proprio lì, quando si dice casa e bottega. Mi sono meravigliata della pulizia, del decoro e dell'assortimento di servizi a disposizione dell'università, come ad esempio numerosi campi sportivi. In un posto del genere è sufficiente possedere una bicicletta, ed ecco che viene semplice percorrere le distanze tra studentato, aulee universitarie e luoghi per passare il tempo. Quando ci si mettono ci sanno fare, viene da pensare.
Il pomeriggio è invece all'insegna di templi buddisti, ma per arrivarci è necessario un po' più di tempo. Dobbiamo infatti dirigerci presso un villaggio a nord di Varanasi, Sarnath, presso cui la religione più diffusa è proprio il buddismo: vi si dirigono molti fedeli in pellegrinaggio, poiché in questo villaggio, in particolare presso una grande struttura chiamata Dhamekh Stupa, il Buddha ha fatto il suo primo sermone. Perciò è un luogo molto importante, così ci siamo fatti trasportare da quest'altro lato della spiritualità indiana. Percepisco una maggiore affinità con questo tipo di religione, piuttosto che con l'induismo, benché il secondo sia sempre molto affascinante con tutte le storie che ha su divinità, loro incarnazioni, animali sacri e così via. Dunque visitiamo il moderno tempio Mulgandha Kuti Vihar, non lontano dal quale vi sono delle pietre rosse su cui si può camminare solo a piedi scalzi e dove si celebra quel primo discorso del Buddha. Nei templi svettano queste grandi statue dorate, come anche presso alcuni giardini, come quello del Tempio thailandese. Ma in quest'utlimo vi si trova anche un'altissima statua in pietra, gigantesca.
Ho notato quanto rari siano i turisti occidentali da queste parti. E come questo spesso accende la curiosità da parte di questi indiani nei nostri confronti. Oggi, oltre alla parte spirituale di templi visitati, ho da riportare la sensazione di attrarre un po' troppa attenzione per i miei gusti. Ad esempio, come noi facciamo foto a loro, anche loro vogliono farne a noi. Mentre il tuc-tuc controllava ad un gommista la pressione delle tre ruote dopo una strada lunga e battuta con pietre puntute che spuntavano ovunque, un gruppo di uomini continuava a fissarci, soprattutto me. Poi un ragazzo, avrà avuto scarsi vent'anni, si avvicina con il cellulare in mano per farmi una foto, senza alcun problema, senza chiedere niente. Io, vedendo questo, decido di stare al gioco, così sorrido.
Un po' mi manca sentirmi, come dire, nel mio branco. Ma so che d'altra parte un viaggio come questo non crea suggestioni e cambiamenti solo a me, perché con me porto in questo luogo lontano un po' del posto da cui provengo. E ne sono fiera.

mercoledì 22 agosto 2012

Giorno 12.

Sembrerà forse un po' strano, ma oggi è stato un giorno di scoperta di un'India molto più bella del solito. Come un risveglio, tra le acque di questo sacro fiume e questa città, in cui si respira, oltre ai soliti discutibili odori, anche un senso di mistico e poetico, che oltrepassa il comune modo di vivere che ho osservato in questo paese. Certo, la religione qui è sempre pronta a manifestarsi in qualsiasi modo, nelle persone, negli edifici, alla vista degli animali per la strada come le madri, ma a Varanasi mi sembra che l'aria sia più densa di devozione da parte dei suoi abitanti.
La mattinata, iniziata con molta rilassatezza, ci ha portati ad incontrare un altro omino, Sanjay, il quale ci ha preso per così dire sotto la sua ala, mentre noi l'abbiamo accolto nel nostro portafogli. Ma devo dire che ne è valsa la pena, perché con la sua compagnia ed i suoi consigli, nonché con il suo trasportarci da un luogo all'altro, ci ha fatto scoprire diversi posti davvero interessanti di questa città. Prima di tutto abbiamo raggiunto uno dei ghat, ossia dei punti di discesa al fiume, presso i quali si recano le persone a lavarsi, o pregare, o lavare i panni e così via. Qui, dopo un'abbastanza lunga contrattazione, abbiamo preso una vecchia barca di legno a motore per dirigerci prima verso sud, al Ramnagar Fort, poi un pochino a nord fino alla moschea Alamgir. Una volta saliti su questa imbarcazione, ci ritroviamo a navigare sulle acque del Gange, che qui chiamano Ganga, per un discreto tempo, che mi ha permesso di osservare moltissimi particolari che mi hanno fatto apprezzare questa città, in modo diverso e forse più delle altre che abbiamo avuto occasione di visitare. L'acqua, seppur densa ed affatto trasparente, accoglieva presso i ghat numerosissime persone intente a lavarsi, ma non solo. Ragazzini si tuffavano e si schizzavano, persone adulte muovevano le mani circolarmente spostando l'acqua con un movimento continuo e concentrato, anziani si lavavano con grande naturalezza e noncuranza, lasciando trasparire come ormai siano abituati a farlo da una vita intera, essendone sopravvissuti. Mentre la barca si allontanava dalla riva da cui eravamo partiti e raggiungeva quasi il centro del fiume, una strana sensazione di avvolgimento è calata, nella consapevolezza che quell'acqua scura e pesante si trovava tutt'intorno a noi. Era bella quell'acqua a modo suo, pur non riflettendo il sole. Laddove non la si guardava in controluce, appariva a tal punto plumbea da sembrare incredibilmente densa.
Dall'altro lato del fiume cominciano a susseguirsi chiazze di verde, alberi ed arbusti, nonché animali. Ovviamente le vacche madri. Queste non passeggiavano lungo il fiume, bensì si facevano il bagno in esso, piene di soddisfazione per il beneficio che ne percepiscono. E intanto i loro mandriani le osservano fuori dall'acqua. Presto, dopo un ponte in costruzione, ecco comparire le terrazze e le guglie del forte, arroccato su di un'altura non troppo elevata, così, assieme al nostro nuovo amico, ci avviamo a raggiungerlo.
Il Ramnagar è, come molti altri luoghi riportati in questa cronaca, uno di quei bellissimi edifici trascurati, questa è di certo la prima impressione. Girando all'interno, nelle stanze del museo, non vi sono oggetti particolarmente interessanti o comunque non valorizzati, mentre gli esterni hanno intonaci rovinati. Eppure sin dall'esterno questo edificio mi ha dato l'impressione di essere più di questo: la varietà dello stile, la ricchezza con cui esternamente si affaccia sul fiume, ha un guizzo di una certa originalità che mi viene difficile descrivere. L'interno è semplice, con un grande cortile centrale, mentre un percorso al secondo livello conduce finalmente all'esterno, su quelle terrazze che avevamo visto dalla barca. Ecco finalmente, capisco il perché di questa sensazione differente: solo qui si trovano due templi, proprio a sottolineare la suggestione della vista sul fiume sacro, che scorre tacito sotto di noi, affacciandoci giù. L'atmosfera si è incupita già da un po', con il cielo scuro e la minaccia di pioggia, ma ormai questo non importa più in questo viaggio, abbiamo capito che si sopporta, si gira comunque anche con la pioggerellina monsonica.
Usciti dal forte, mentre ci avviamo a riprendere la nostra barca, Sanjay ci dice che l'omino in quello stand accanto a noi, proprio lui, fa dei lassi speciali. Per capirci, il lassi è una specie di yogurth denso e dolce, che a Varanasi va per la maggiore. Sanjay dice che questo è il lassi più buono di tutta la città, secondo lui, così ci suggerisce di assaggiarlo. Il mio compagno preferisce di no, io dico ok, tanto più male di come sono stata è difficile poter stare. Mi rallegra molto vedere che anche Sanjay ne prende uno con me e resto sorpresa nel vedere che, mentre io ancora devo finirne metà, lui ne ha già ordinato un secondo e ha finito anche quello. Dice che si beve tutto insieme, che è una bevanda, ma per me è troppo dolce, devo andarci piano. Poi, guardandomi intorno, vedo una tavolata nella stanza accanto in cui l'omino serve i suoi lassi: ognuno ha almeno una coppetta, ma diversi ragazzi, tra cui anche molto giovani, hanno tra le mani delle caraffe di latta piene di quella dolcezza liquida, come a non averne mai abbastanza. Io ringrazio soddisfatta, ma capisco che per loro è come un'abitudine, qualcosa di cui davvero non possono fare a meno.
Aspettiamo qualche minuto vicino alla riva sotto una tettoia, con un gruppo di indiani che già si trovava lì, aspettando che diminuisca la pioggia per poter salpare nuovamente. Sono gentili e ci fanno posto, mentre il nostro amico parla con tutti e scambia battute con chicchessia. Ci rendiamo conto che lui, come si dice a Roma, se la comanda molto da queste parti, conoscendo tutti o sapendosi far conoscere molto in fretta e con naturalezza.
La pioggia continua a scendere, ma più dolcemente, così ci rimettiamo in movimento sul Gange, alla volta della moschea. Veniamo a conoscenza di come, presso questo fiume, non si facciano il bagno solo gli induisti, bensì anche i musulmani, con la differenza che i primi pregano durante il bagno. In questa città la religione hindu e l'islam sono distribuiti in maniera quasi del tutto paritaria, ci dicono. Ma tendono anche a sottolineare, sia hindu che musulmani, che vanno molto d'accordo fra loro. Infatti il nostro accompagnatore hindu non solo ci conduce alla moschea, bensì vi entra con noi. Con serenità chiacchiera con l'omino che ci accoglie e non ci stupiamo nel vedere che entrambi ci spingono a lasciare almeno una decina di rupie nella scatola delle offerte. Ecco, come dicevamo, vanno molto d'accordo.
Percorriamo scalzi la moschea, effettivamente bella, con pareti azzurre e volte scolpite con dettagli a fiori, molto aggraziati. Poi, poco più in là, ecco che anch'essa si affaccia direttamente sul fiume, protagonista indiscusso di ogni attività, di ogni luogo, di ogni individuo che abita questa città. Sembra accompagnare la nostra visita, senza lasciarci mai.
Scendiamo nuovamente verso l'imbarcazione, percorrendo numerosi gradini assai ripidi, lungo i quali si trovano cani appisolati e passeggiano come al solito capre, qui molto diffuse. Il nostro Sanjay, anziché avvicinarsi e fare due carezze al cane, si avvicina alla capra e se la abbraccia. Eccolo lì, questo indiano di una quarantina d'anni, un po' rotondo e dall'aria simpatica, che usa parole tenere che non possiamo capire con questa capretta nera, che tranquilla si fa coccolare da questo sconosciuto. Infine, salendo sulla barca, una madre nell'acqua lì accanto: se la godeva moltissimo, rigirandosi da un fianco all'altro ed adagiandosi sul basso fondale. Ci dirigiamo al punto d'inizio di questa piccola crociera sul Gange e penso che questa città ha davvero qualcosa di speciale, di diverso dalle altre. I disparati colori degli edifici che si affacciano sul fiume, con i loro decori, regalano un'atmosfera di bellezza intrinseca, segnando livelli di abitazioni e di templi su quella riva, presso quei ghat, rivelando il susseguirsi delle vite che ne hanno permesso la realizzazione nella sua complessità. Le pire funerarie sono moltissime, concentrate soprattutto presso due luoghi di cremazione, e fanno pensare a come quelle vite, una dopo l'altra, finiscano inevitabilmente per diventare parte stessa della città e dell'acqua sacra di questo fiume, che le ospita per l'eternità.
Non posso dimenticare di includere la visita a due negozi, altrettanto piacevoli. Il primo di stoffe coloratissime e meravigliose, in cui ci hanno fatto sedere a terra su un materassino e molti cuscini, srotolando una dopo l'altra queste sete colorate sulle nostre gambe. E poi l'artigiano, che ci ha mostrato il suo magazzino con moltissime statuette in pietra e in legno, in particolare anche quello di sandalo. Il profumo è avvolgente, la povere dei piccoli oggetti intarsiati e lavorati resta sui polpastrelli, come una patina liscia. In questo spostarsi tra piccolissimi, microscopici vicoletti, incontriamo molti adulti che ci guardano interessati ma con una certa discrezione, seppur curiosi della nostra presenza lì, essendo gli unici bianchi in circolazione. I bambini sembrano ancor più interessati: due bambine dai sari colorati mi si avvicinano e mi salutano gesticolando, poi mi toccano il braccio per prendermi la mano. Vogliono stringermela, per salutarmi, come fanno le persone grandi, e io ricambio sorridendo, molto volentieri. Un bambino ondeggia su di un'altalena fissata alla porta d'ingresso di una casa, che è piuttosto un arco. Eccolo comparire e scomparire davanti e dietro di noi sorridente, mentre noi lo salutiamo. Ed una bambina dallo sguardo dolce, con i capelli molto scuri e corti, seduta accanto a me presso l'artigiano delle statuette, che mi osserva mentre contratto il prezzo: mi giro e le sorrido, lei fa lo stesso, poi le faccio la linguaccia, lei ride. Il nostro amico le chiede se capisce l'inglese, lei risponde di no. Ma in fondo non serve, non è importante. Ci siamo capite.
Questa giornata mi ha permesso di riabbracciare questa esperienza, di riconciliarmi con questo paese nel modo migliore.


Giorno 10 e 11.

Due giorni insieme questa volta, per questioni tecniche in ritardo. Le ultime due sere la rete internet era qualcosa di impossibile. Soprattutto la prima sera, dato che l'abbiamo passata in una cuccetta fino alla mattina successiva, per raggiungere infine Varanasi in un treno della speranza, in cui la seconda classe per noi sarebbe l'ultima delle ultime, mentre qui quella è la sleeper. Non so bene perché sia chiamata così, perché dubito che le persone che vi siano all'interno possano dormire, dato che è completamente presa d'assalto, gremita di persone in maniera incredibile. Comunque sia ora siamo a Varanasi, pronti a scoprire cosa questa città abbia da mostrare, essendo la città del Gange, dei rituali presso di esso e così via.
Ma prima un breve excursus degli ultimi due giorni. L'altro ieri notte non ho chiuso occhio, perché, ebbene sì, è toccato a me. Ho beccato una ricchissima infezione intestinale e, senza entrare in orribili dettagli, non ho dormito più di cinque minuti. Così quello che sarebbe stato l'ultimo giorno ad Agra l'abbiamo passato in albergo, perché non riuscivo a stare in piedi, seduta mi sentivo strana, dunque potevo stare solo stesa ed in più con tanto bisogno di dormire. Sono stata però trattata con enorme gentilezza da parte del proprietario dell'albergo, che mi ha offerto la stanza quel giorno per riposare, nonché dato consigli paterni sulla salute. Anche la ragazza acida della reception si è mostrata improvvisamente attenta e garbata, vedendomi così sconvolta. Era dispiaciuta per me. Così sono rimasta a vegetare per quelle ore, in parte dormendo, in parte venendo visitata da un medico indiano molto professionale, che mi ha prescritto un bel po' di medicine e mi ha rincuorata. Diciamocelo, il terrore puro era che si potesse trattare di colera, ma ovviamente non era così. Sta di fatto che mi sono sentita un po' meglio in serata, così abbiamo potuto prendere e non perdere il treno che avevamo prenotato, la cuccetta di seconda classe per venire qui. In fondo non è stato malissimo, le ore non sono passate poi così lentamente come credevo, se non fosse che siamo arrivati con più di un'ora di ritardo a destinazione.
Finalmente alla stazione di Varanasi prendiamo un taxi e raggiungiamo l'hotel assolutamente occidentale in cui ci troviamo. Ci è sembrato così strano e confortante, al tempo stesso. Dopo la mia malattia e il viaggio notturno in treno, diciamolo, non avevamo la forza di fare altro che dormire beatamente un po' di ore in un letto comodo e pulito, così ci siamo concessi la giornata per riprenderci. Adesso siamo pronti a riaffrontare questa India, non senza qualche piccolo trauma. Devo dire che ho una certa difficoltà con gli odori, sia i cattivi odori che quelli del cibo. Mi riportano a tre notti fa e sento di non potercela fare. Continuavo a pensare, mentre stavo male, a come per queste persone sia normale incappare in problemi come questi, e probabilmente a come su di me risulti ben peggiore non essendovi abituata. Inoltre pensavo a quello che potevo perdermi, sprecando il tempo stando male, invece di approfittare dell'essere qui adesso, del poter vedere i luoghi di questo paese così lontano da dove vivo.
D'altra parte il fisico e la mente hanno il loro tempo per riprendersi e, nel mio caso, mi hanno chiaramente fatto capire che non mi stavo regolando. Adesso, forte di aver (spero) smaltito o comunque superato il peggio, ci avviamo.
Stasera parlerò di questa giornata, se la connessione mi assisterà.

domenica 19 agosto 2012

Giorno 9.

Dopo le note un po' amare di ieri, oggi lo spirito è completamente diverso. Perché ci siamo presi la giornata con più calma. E soprattutto perché ho visto il Taj Mahal.
Questa è stata la principale attività della giornata e l'unica visita, anche perché la città di Agra, a parte il Taj, non ha molto altro da riservare. Così con molta calma, dopo una ricchissima colazione, verso
mezzogiorno abbiamo preso il mitico tuc-tuc che con sole ottanta rupie ci ha portati all'ingresso orientale. Ormai devo dire che mi sono abituata a questi strani mezzi di trasporto, questi piccoli taxi, senza finestrini e specchietti, perché sono sempre e comunque delle ape-car della Piaggio. Hanno qualcosa di divertente, di caratteristico soprattutto, con tutte le decorazioni che ogni guidatore decide di applicarvi. Oggi osservavo come uno di questi avesse, accanto al manubrio, piccole icone hindu come Ganesh, molto diffuso tra i guidatori, nonché la svastica tipica dell'induismo. 
Arrivando all'ingresso, bisogna percorrere una strada di circa mezzo chilometro per raggiungere l'area in cui si trova il ticket office, al quale ci siamo avvicinati con cautela per capire come funzionava, e da lì abbiamo scoperto quanto fosse facile. Intendo per noi turisti, perché al Taj, come in altri luoghi che abbiamo visitato, gli indiani hanno delle file distinte dagli stranieri, i quali ovviamente pagano di più,
almeno il doppio. Ma il doppio vale la pena, specialmente in questo caso, perché non abbiamo fatto alcuna fila, mentre gli indiani componevano file lunghissime in attesa di prendere il biglietto, poi di entrare passando attraverso il metal detector e controlli delle borse, ed anche per entrare nel mausoleo centrale. Noi abbiamo camminato senza interruzioni, tranquillamente raggiungendo la piazza centrale a cui si accede dai tre accessi, orientale, occidentale e sud. Verso nord si trova lui, nella sua impassibile magnificenza.
Raggiungendo il centro di questa piazza, il portale nord di arenaria rosso fuoco si stagliava verso il cielo, mentre l'arco di accesso al giardino quadrangolare si ritaglia un relativamente piccolo spazio nel mezzo. Vediamo affollarsi in quella direzione decine e decine di persone, così ci avviciniamo. Ed ecco che dall'arco del portale comincio ad intravedere il suo bianco inconfondibile e un brivido mi percorre la schiena. Un'emozione incredibile varcare quella porta, una sensazione di indescrivibile potenza e meraviglia nell'ammirare finalmente con i miei occhi, dal vivo, questo splendore immenso.
Un bianco accecante, ma estremamente delicato nelle sue forme, accarezzando il cielo che gli fa da sfondo. Il celeste incupito a stralci da nuvole scure delinea i contorni del Taj, che risplende, davvero. Il giardino di fronte è gremito di persone, come tutto intorno a noi, ma non importa, come non importa il caldo asfissiante e le gocce di sudore che continuano a scendere senza sosta. La vista è troppo bella.
Ci incamminiamo verso di lui e comincio ad osservarne i dettagli, il segno delle grandi pietre che compongono la cupola, i disegni arabeggianti e le decorazioni floreali, che da lontano sembravano non esistere, inglobate in quel candore. Saliamo sul basamento rialzato che dà accesso al mausoleo, al vero e proprio edificio, con sacchetti intorno alle scarpe perché questo è un luogo sacro, per lo più musulmano. All'interno lo spazio circolare nel cuore è quasi buio, apparendo tale soprattutto dopo tanta luce. Avrebbe dovuto esserci il silenzio, come anche il divieto di fare fotografie, ma nessuna delle cose era rispettata, ma una volta riusciti, seppur nel mezzo di moltissime persone, mi sono nuovamente sentita avvolta da questo luogo speciale. Di fronte all'uscita di questo mausoleo, vi è la vista posteriore, ossia rivolta a nord, che guarda sul fiume Yamuna, ancora molto bella e rasserenante. Restiamo seduti per un po' all'ombra del Taj, su quel marmo caldo e liscio, per poi avviarci a visitare la moschea che si trova al lato. Buttiamo le buste intorno alle scarpe, che decidiamo proprio di togliere, per camminare davvero su quel pavimento. Avevo davvero voglia di entrare in contatto con tutto questo, tanto che ho toccato per un certo tempo anche le sue pareti. Mentre passeggiamo, comincia a piovere, prima delicatamente e silenziosamente, poi con goccioloni grandi fino a diventare un acquazzone. Con calma, sotto l'acqua, siamo tornati alle scarpe, ma nel frattempo osservavo i miei piedi nell'acqua, la pietra rossa di quella parte di pavimentazione non troppo regolare sulla superficie. E niente di tutto questo mi infastidiva, anzi, trovavo che fosse bellissimo anch'esso. Tranquillamente ci siamo avviati verso l'uscita, ormai zuppi dalla testa ai piedi, non più solo per il sudore ma anche per la pioggia. Vedevo tutte quelle persone intorno a noi divertite, allo stesso tempo entusiaste, proprio come mi sentivo io. Ho avuto la sensazione che quel luogo sia inebriante, che il Taj Mahal renda le persone felici. 
Mentre andavamo via, continuavo a girarmi, come a voler avere un'ultima fotografia mentale di quella scena incredibile. Ancora una volta, ancora una. E infine, sospirando, ho pensato che per il momento dobbiamo dirci arrivederci, amico mio. Ma magari tornerò. Di certo non ti dimenticherò.
Per il resto, la giornata è scorsa rilassatamente, passando qualche ora in albergo ed usufruendo anche della piscina che ha. In fondo perché no, è pur sempre una vacanza questa. Ed infine siamo usciti per cena, per la prima volta diretti in un ristorante lontano, in cui abbiamo mangiato eccezionalmente bene. Osservando le strade di Agra di notte, lo smog nel tuc-tuc ci raggiunge, fa tossire qualche volta. 
Alcune persone sono sedute per strada senza maglia a chiacchierare con gli amici, qualcun'altro dorme proprio sullo spartitraffico nel mezzo della strada indisturbato da clacson e motori. Gruppi di persone si accalcano per mangiare insieme presso una sorta di sagra. Serenamente questa giornata si conclude, pronta a lasciare il posto a molto altro. A domani.

sabato 18 agosto 2012

Giorno 8.

Mentre un omino si trova nella nostra stanza per far funzionare la televisione, io comincio a scrivere di questa giornata che potrei definire del tutto sfinente, seppure apparentemente non abbiamo fatto poi molto. Siamo partiti in mattinata da Jaipur per raggiungere Agra, questa terza città indiana che ci troviamo a scoprire. Ho la sensazione che, per quanto differente sia ogni giornata dall'altra, alla fine il risultato sia il medesimo: una profonda stanchezza, a volte fisica, ma sempre mentale. Come se fossi stata lavata e rilavata, per poi essere centrifugata in lavatrice. 
In sostanza credevo che questa sarebbe una giornata tranquilla, non dico rilassante, ma quanto meno non stressante come invece si è rivelata, trattandosi solo di uno spostamento da una città all'altra.
Tutto ha avuto inizio con l'arrivo dell'indiano che ci ha condotti fino a qui, il quale ha avuto difficoltà a comprendere l'inglese per tutta la giornata, dunque la comunicazione si è rivelata difficile, sebbene siamo riusciti a risolvere comunicando con il suo capo per telefono. Mentre l'auto lasciava Jaipur, abbiamo visto centinaia di volantini colorati volare per alcune strade, per le elezioni universitarie. Una volta usciti dalle strade cittadine, abbiamo percorso l'autostrada lungo il fondovalle, mentre intorno a noi vi erano le pareti verdi delle alture caratteristiche di quest'area. Poi si susseguono mucche che brucano nell'isola spartitraffico, ogni tanto attraversando e mettendo in crisi i guidatori spericolati. Motociclette procedono sulla corsia di sinistra, guidate da un uomo e dietro una donna, il cui velo colorato viene gonfiato dal vento durante la corsa. Piccole costruzioni arrangiate tra le ruminanti madri, presso cui sembrano abitare quegli individui che si trovano lì. E mi chiedo quante storie da raccontare si nascondano in ognuno di questi piccoli angoli nel bel mezzo del nulla. Ragazzini compaiono allegri sulle biciclette da strade sterrate che conducono alla strada che percorriamo, chissà da dove vengono. Altre abitazioni, molte delle quali con fili di panni colorati stesi ad asciugare al sole. Un cammello si prende un po' di tempo per sé da solo, nel mezzo di una distesa verde, che ospita anche vacche e buoi con i rispettivi accompagnatori, in solitaria con un ombrello per ripararsi da sole o pioggia che sia. Infatti comincia a piovere: un bambino con indosso solamente dei calzoncini aspetta presso l'isola spartitraffico di attraversare l'autostrada. 
Decidiamo dopo tre ore di viaggio di fermarci a visitare Fatehpur Sikri, un'antica città fortificata che ci aspettavamo di trovare deserta. Invece ci troviamo ad affrontare un caos totale dato da un festival per la fine del ramadan. Perché la regione dell'Uttar Pradesh, in cui ci troviamo, sembra particolarmente popolata da musulmani. Così, per entrare nel sito storico, patrimonio dell'umanità, dobbiamo prendere dal parcheggio un bus, che ci lascia ai piedi del complesso di edifici. Ci avviamo nella direzione suggerita da alcuni individui e ovviamente ci perdiamo, in mezzo alla quantità disarmante di persone e di chioschi pronti a vendere qualsiasi cosa, da cibo, a ninnoli, ad abiti. Non può essere questa la direzione giusta, ci diciamo, così ci giriamo per tornare indietro e veniamo avvicinati da un tipo gentile che ci vuole aiutare, ma noi sappiamo che c'è qualcosa sotto. Solo che, non sapendo dove andare, ci lasciamo guidare, sperando che ce la mandi buona. Ci comincia a condurre per delle stradine ripidissime, con capre, spesso escrementi ed immondizia, per non parlare delle mosche, mentre incrociamo un grande maiale con dei piccoli che placidamente proseguono. Lui cammina scalzo su quelle pietre di cui è fatto questo percorso e penso che dev'essere tutta la vita che sale quei vicoli senza scarpe. Ogni tanto scambia un cenno con persone che sono intorno a noi, mentre di tanto in tanto ci fa delle domande sull'Italia, da quale città veniamo. Molti bambini ci si avvicinano, dicendo solamente "hello, money" o "desculpa", agitando le manine o porgendole per ricevere qualcosa. Diverse persone sono intente in tutto questo a cucinare in mezzo a questi stretti passaggi, con grandi pentoloni che emanavano odori ormai familiari, che tuttavia si mescolavano con gli olezzi presenti in questa zona. Il caldo e la salita cominciano ad essere troppo per noi, che siamo delle mozzarelle in confronto a questo tipo, tranquillo nella sua scarpinata verticale. Infine arriviamo a questa scalinata da cui si ha una vista su praticamente tutta la regione ed è impressionante, ma quello che abbiamo appena attraversato è rimasto lì con noi, quella sensazione di intrusione in una vita che non ci appartiene, di cui siamo in fondo solo in grado di provare repulsione, perché non sapremmo viverci, perché al solo pensiero di far parte di tutto ciò, il rifiuto nasce del tutto spontaneo.
Entriamo in questa fortezza con le scarpe in mano, si tratta di un luogo importante e sacro per i musulmani di qui. L'imperatore moghul Akbar fece costruire tutto questo nel '500, pensando anche alle sue tre mogli preferite: una hindu, una musulmana ed una cristiana. Ad esse l'architettura di questo luogo è ispirata, con elementi misti di culture molto diverse tra loro, cosa che rende particolarmente affascinante Fatehpur Sikri. Tuttavia i venditori continuano a sopraffarci, a cercare di appiopparci qualsiasi oggetto, così diciamo al nostro nuovo amico che vogliamo andarcene, ma lui non ci molla a quel punto, deve ottenere qualcosa da noi. Così, vicino all'uscita, ci fa conoscere suo nonno, il quale produce statuette in pietra, nel senso che è proprio lui a lavorarla. Dai, compratene una, due, tre. Obiettivamente erano molto belle, così dopo una lunga contrattazione, che ha fatto scendere il prezzo alla metà, ne abbiamo acquistate due, abbiamo ringraziato e siamo scappati via. Davvero incredibile questo posto, folle, da far girar la testa per la crudezza della realtà che mostra.
Ci rimettiamo in viaggio verso Agra, che è vicina da dove ci troviamo. Mentre l'autista paga la tassa di passaggio nella città, ecco avvicinarsi al mio finestrino un uomo dai capelli tinti color rosso del tutto innaturale con una scimmia al seguito. La porta legata con una corda, e, piantandosi davanti a me, le fa un cenno e lei salta sulla cima del bastone di legno con il quale l'uomo si accompagna. Poi la scimmia si appoggia al vetro del finestrino: guarda me e il mio compagno, batte distratta la mano sul vetro. Osservo quanto sia bella, davvero, sembra avere un pelo morbidissimo. Ma ecco che per farla scendere l'uomo sposta il bastone e la strattona, come per spostarsi un po' più in là, forse lì daranno loro più attenzioni. Così si spostano e lui continua a strattonarla, per farle fare diverse mosse, verticali, capriole. 
Infine arriviamo ad Agra ed andiamo verso l'albergo, ma troviamo un ingorgo pazzesco, in cui ogni veicolo è del tutto impossibilitato a muoversi. Rimaniamo lì per un bel po', per poi trovare una strada più libera, ma in quel lasso di tempo mi si presenta una scena. Un venditore di pesce, i pesci. I pesci sono completamente, e intendo completamente, ricoperti di mosche, come a voler vendere quelle piuttosto che il pesce. Ho pensato di non aver mai visto così tante mosche in vita mia in una sola volta. Le persone là intorno sembravano indifferenti alla cosa e c'era persino qualcuno che comprava.
Infine l'albergo e un po' di tempo per tornare alla civiltà che più ci appartiene. Ma, più i giorni passano, più sembrano farsi palesi le difficoltà di sostenere una vacanza di questo genere, che non trovo poi corretto chiamare tale. Questa esperienza, questa scoperta di un'altra parte del mondo così distante.
La sera, prima di andare a dormire, dopo aver scritto di queste giornate, in cuor mio faccio un sospiro e spero. Spero dentro di me di essere più forte il giorno successivo e che tutto quello che sto conoscendo, che sto imparando, non svanisca mai.